Il monaco e l’arcangelo

La leggenda della Sacra di San Michele

I piedi scalzi, intirizziti dal freddo e dolenti risalivano il pendio sassoso del monte, attraverso il sentiero della mulattiera. Il monaco eremita, nel suo cammino silenzioso, ringraziava Dio per quel supplizio delle carni e per aver voluto che quel suo viaggio fosse quasi al termine.

Una lunga barba grigia e incolta nascondeva un viso dai tratti sofferenti; gli occhi erano incavati, per le ripetute privazioni, e il naso lungo ed affilato acuiva l’espressione grave. Il capo a tratti si volgeva verso l’alto per esaminare il sentiero, ma subitaneamente si riabbassava in segno di umiltà e di fede in Dio Padre, che avrebbe vegliato sui passi del Suo servitore.

Era silenzioso, ma non era solo. Con lui vi erano dei giovani monaci, ai quali aveva vietato di chiamarlo maestro.

Il loro unico ed insostituibile maestro terreno si era diretto verso oriente e gli aveva indicato, nella direzione opposta, quella valle con quei monti selvosi, lontani dal rumore e dallo sfarzo della civiltà, che avevano impedito al discepolo, per lunghi anni, di servire Dio come credeva fosse meglio: povero di cibo e vesti, ma ricco di afflizioni corporali con le quali glorificarLo.

Giovanni Vincenzo era rinato alla vita monaco benedettino; poi, aveva conosciuto padre Romualdo, che gli aveva mostrato come seguire Gesù sulla Croce, addossandosi le colpe del mondo, che stava arrivando spiritualmente impreparato alla soglia del Millennio, incurante dell’ira divina. Come Romualdo, che aveva iniziato a chiamare maestro, era diventato eremita, penitente per tutti i peccatori della sua epoca. Ma rimaneva comunque un monaco e come tale aveva il dovere dell’obbedienza; non aveva potuto rinunciare, quindi, all’incarico assegnatogli dal Papa, che lo aveva innalzato, al di sopra di tanti suoi confratelli, al rango di arcivescovo in una delle diocesi più impegnative di tutto il papato, quella di Ravenna. Quanti obblighi temporali e quanti pochi momenti per la cura dello spirito dei suoi diocesani!

Quel viaggio testimoniava che Dio aveva ascoltato le sue preghiere.

La giornata, che era stata soleggiata, volgeva al termine, così come la stagione invernale. La luce del sole, quindi, illuminava ancora il loro cammino, ma il freddo era via via più intenso proseguendo nella salita.

Erano vestiti di un saio e riscaldati da un lacero mantello, tutti a piedi nudi: e non era poca penitenza. Due dei giovani monaci precedevano il gruppo, per assicurarsi che la strada fosse priva d’impedimenti; gli altri quattro seguivano Giovanni, in segno di rispetto. Padre Giovanni Vincenzo sapeva che non tutti i suoi compagni possedevano la forza per rimanere eremiti, ma forse sarebbe stata volontà del Signore la costruzione di una chiesa in quella landa abitata da poveri pastori e chi si fosse occupato delle anime che vivevano su quelle rocciose pendici, non avrebbe avuto il tempo di vivere nel romitorio.

Qualcuno aveva indicato loro che, quasi sulla cima di quel monte, il Caprasio ossia il Monte delle Capre, vi era una specie di grotta, una spelonca dove trovare un po’ di rifugio per la notte.

Ed ecco che uno dei due frati, che precedevano, tornò indietro di corsa e con la gaiezza dei suoi pochi anni, si mise quasi ad urlare e riscosse Giovanni dai suoi pensieri:

“Siamo arrivati! È poco più in su! Avanti fratelli… Padre Giovanni, fatti aiutare…!”.

Il monaco più anziano accettò il braccio d’appoggio, ringraziando ad alta voce il giovane e Dio che li aveva sostenuti per tutto il lungo viaggio.

Quando, dopo pochi minuti, arrivarono in quella radura, dove l’altro monaco si era già inginocchiato a pregare, Giovanni capì che era vissuto per raggiungere quel luogo: era giunto alla fine del suo viaggio e, in ogni senso, del suo cammino terreno.

Salendo, con un ultimo sforzo, l’ennesimo dislivello del terreno, si trovarono di fronte due enormi massi, che caduti dalla cima del monte chissà in quale epoca remota, si erano fermati, l’uno appoggiato all’altro formando un antro. La luce entrava anche dalla parte opposta, da una feritoia, laddove terra e sassi non avevano ostruito completamente l’imbocco. Sulla sinistra, altri massi più piccoli si erano disposti a formare un ricovero che, nel pensiero del monaco, poteva essere adoperato almeno da uno dei compagni.

Gli alberi, tutt’intorno, erano ancora spogli, ma robusti e alcuni sembravano aver attecchito su pietre, che cingevano in un groviglio di radici, come una ragnatela dalle estremità conficcate nel terreno. Negli spazi in cui la vegetazione era più rada, lo sguardo poteva spaziare sulla valle sottostante e sui monti che si ergevano dall’altra parte del fiume. L’effetto, nella poca luce dell’ora tarda, era di grosse bestie dal vello marrone e grigio, che si erano accucciate per la notte.

Su di una cresta del monte opposto, il Monte dei Porci, il Pirchiriano, così a padre Giovanni era parso di capire venisse indicata quella montagna, si scorgeva una piccola costruzione, forse una cappella e più in sotto nella valle si trovava una lunga muraglia, che si allungava da una pendice all’altra dei due monti, confine occidentale del Regno del Longobardi.

Dopo essersi sfamati un poco con il pane, che era loro rimasto, e aver recitato i salmi, si sistemarono per riposare, sdraiandosi sulla nuda terra, avvolti solo nel mantello.

“Giovanni, svegliati!”; il monaco si destò di soprassalto al richiamo di quella voce; stette in silenzio ad ascoltare, ma non gli sembrò che alcuno dei suoi compagni fosse ancora desto.

Si sdraiò nuovamente e il sonno lo colse immediatamente, ma, dopo qualche secondo, la voce riprese:

“Giovanni, svegliati e seguimi!”.

Il monaco si alzò immediatamente e gli parve di vedere, al di fuori della grotta, una figura in movimento rischiarata da una luce di incomprensibile provenienza. Si fece forza e, invocata col pensiero la protezione di Dio, si avviò all’esterno. Spirava un vento gelido e Giovanni rimase senza fiato; si fermò, incapace di richiamare l’attenzione di colui che lo precedeva, ma questi si voltò e gli disse:

“Non aver paura Giovanni e non esitare perché la tua umiltà è grande agli occhi del Signore”.

“Ma tu chi sei?”, riuscì finalmente a domandare l’eremita.

“Io sono l’Arcangelo Michele e sto sempre alla presenza di Dio”[ref]Così S. Michele si presenta ne “L’episodio del Toro”, Puglia[/ref],e così dicendo si accese di una luce calda e benigna. Aveva grandi e splendide ali ed era vestito con una corazza da soldato. Al fianco portava una spada di fuoco.

 “Ed ora seguimi ed abbi fede!”.

Padre Giovanni, che era caduto in ginocchio, fece per riprendere il cammino, ma subito gli sembrò che le sue membra diventassero più leggere e meno dolenti e il freddo fosse meno pungente. Si era staccato da terra e, grazie ad una Volontà non sua, stava lasciando le pendici del monte per librarsi al di sopra della valle.

“Padre, nelle tue mani affido il mio spirito…”, pregò il monaco.

Tutte le cose, all’improvviso, furono illuminate, di riflesso, dall’Arcangelo, che iniziò a parlare:

“Ti affido un grande compito, Giovanni: la costruzione di una basilica che sarà consacrata a Mio Nome, per la Gloria di Dio Padre. Ecco, guarda! Il Signore ti permette di conoscere quello che non riuscirai a vedere in vita…”.

L’Arcangelo Michele indicò al monaco la cresta, dove la sera precedente aveva notato la cappella; in quello stesso punto si ergeva una possente costruzione. La vetta del monte Pirchiriano non era più visibile, incorporata nella basilica che con la sua imponenza e posizione dominava la valle.

Padre Giovanni osservava, affascinato dalla potenza di Dio; ad un certo punto si accorse che vi erano alcune persone all’esterno: una giovinetta correva cercando di sfuggire ad un drappello di soldati. Arrivata sulla sommità della torre del monastero, costruita in prossimità del precipizio, esitò un istante, poi si gettò nell’abisso a mani giunte. Ed ecco che l’Arcangelo, improvvisamente trasferitosi, nel tempo e nello spazio, sulla scena della tragedia, la sostenne e le fece appoggiare delicatamente i bei piedi sulla terra, più in basso. Giovanni non capì perché, dopo pochi secondi, ciò che vide fu invece la fanciulla immobile nella morte che l’aveva smembrata, schiantandola al suolo. Allora l’Arcangelo gli spiegò che grave colpa aveva avuto la giovane, nell’attribuirsi meriti propri solo del Signore [ref]Leggenda della Bell’Alda[/ref]

Avvicinandosi sempre più al Pirchiriano, il monaco vide gruppi di pellegrini che salivano al monastero per trovare un po’ di ristoro al loro viaggio.

“… perché questo è il punto esatto, il luogo a metà strada tra il Nord e il Sud, sul cammino verso la Santa Terra Natia. Altri due sono i Santuari, dedicati al nome dell’Arcangelo che sta alla presenza di Dio, e indicano la via per la Redenzione…”.

A quelle parole, alcune stelle sulla volta celeste risplendettero con intensità differente e a padre Giovanni, già religioso dotto e pellegrino, sembrò di riconoscere i confini della terra di Normandia. Da un punto preciso della costa, indicato da un astro di particolare splendore, si dipartiva una linea retta, che raggiungeva la località dei Longobardi, che lui sovrastava in quel momento, contrassegnata da un’altra stella brillante; da lì, una seconda linea indicava il percorso verso il Sud d’Italia e terminava sul Gargano, con un altro elemento luminoso.

Giovanni fu interrotto nella contemplazione di quella nuova rivelazione, dalla percezione di un movimento e di un suono alla sua destra. Volgendosi un poco verso il Caprasio, si accorse che stormi di colombe bianchissime e schiere di angeli, uniti in un canto glorioso, li stavano seguendo, trasportando pietre e legni, raccolti da quel monte.

Quando si voltò nuovamente verso la sua meta, la luce dell’Angelo si stava affievolendo e il monastero era scomparso. Rimaneva una vecchia cappella, presso la quale il monaco ritoccò il suolo e gli angeli e le colombe posarono il loro carico.

Le ultime parole che padre Giovanni udì, nell’oscurità smorzata dal chiarore delle stelle, furono:

“Ed ora riposa e domani da’ inizio al tuo lavoro per il quale sarai ricordato nei secoli dei secoli”. Il vento sibilava tra i rami, trasportando l’ululato dei lupi, mentre sulla sfera celeste persisteva l’eco luminosa di una straordinaria costellazione.

invia il tuo messaggio

Questo sito fa uso di cookie per migliorare l’esperienza di navigazione degli utenti e per raccogliere informazioni sull’utilizzo del sito stesso. Proseguendo nella navigazione si accetta l’uso dei cookie; in caso contrario è possibile abbandonare il sito.

Small C Popup.png

Iscriviti alla nostra newsletter