La mente nella nebbia

Iniziò quando ero un ragazzino. Avrò avuto nove anni e le ginocchia piene di croste sanguinanti per le frequenti cadute sul campo da calcio; dove non c’era il sangue rappreso, il nero ero lo sporco della terra polverosa, che diventava un tutt’uno con la pelle e non se ne andava neanche a sfregare con la brusca per i panni.

Era giugno e nell’aria si respirava l’afa che avvolgeva la città e gravava sui campi d’intorno e noi ragazzi assaporavamo la libertà dalla scuola, che sapeva di terra, sudore e scazzottate.

Nel dopocena, sotto un cielo bianco, che dispensava ancora luce ma non il calore del giorno, le rondini si univano alle nostre corse sfrenate con i loro voli radenti e, con i loro improvvisi cambi di direzione, formavano in aria strane figure geometriche, che riempivano con striduli garriti.

Una sera di quelle, avevo appena finito di cenare e fremevo, impaziente di raggiungere i compagni che sentivo urlare nel campetto vicino.

Mia madre stava riordinando la cucina, mio padre, già con gli occhi piccoli per il sonno che stava sopraggiungendo dopo la lunga giornata di lavoro e forse dopo un bicchiere di vino di troppo, guardava il telegiornale alla tivù in biancoenero; mio fratello, più grande di otto anni, faceva finta anche lui di interessarsi alle notizie trasmesse, ma in realtà pensava alla ragazza che avrebbe visto in piazza entro un’ora. Qualche giorno prima, dopo averla incontrata per strada, mi aveva sussurrato all’orecchio che quella lì ci stava: io non capii bene a cosa si fosse riferito, ma pensai che non potesse essere più interessante della bicicletta nuova che stavamo andando a scegliere.

Quella sera, quindi, eravamo entrambi quasi pronti a schizzare via, quando mia madre ci chiese di andare a tirare qualche zucchina nell’orto, perché voleva preparare un sugo per l’indomani.

Mio padre non si mosse né fiatò, come se non avesse sentito; io e mio fratello ci guardammo e prima che riuscissi ad aprire bocca lui sbottò:

“Forza! Hai sentito mamma?”.

“No! Vacci tu!”, gli dissi di rimando, urlando.

“No, io mi sporco i pantaloni, tu sei già lercio da mettere in candeggina…”, mi rispose con una smorfia.

“E perché hai paura di sporcarti? Perché devi vedere quella che ci sta?”, lo canzonai io.

Mio padre, che aveva continuato a sonnecchiare fino a quel momento, si riscosse, spalancò gli occhi e domandò:

“Chi ci sta per cosa?”.

Mio fratello diventò rosso dalla vergogna e dalla rabbia, si sporse avanti sul tavolo e stava per appiopparmi uno sganassone sulla testa, quando mia madre lo fermò, urlando arrabbiata:

“Adesso basta! Tu, Daniele, vai nell’orto, ché tuo fratello ha i pantaloni lunghi e domani mi tocca lavarglieli… e tu, Andrea, non pensare di uscire di casa prima di aver sparecchiato e riordinato quel mucchio di magliette che hai buttato sul letto in camera tua”.

Andrea mi lanciò ancora un’occhiata piena di rabbia e si mise a sparecchiare; io, volendo ancora sfidarlo, gli dissi:

“Cerca di sbrigarti, perché io sarò veloce come una saetta e c’impiegherò cinque minuti; tu invece arriverai in ritardo all’appuntamento… Guarda sono le otto e cinque…”, lessi sulla sveglia appoggiata sulla credenza e corsi fuori di casa.

Ora, bisogna sapere che quello che mia madre chiamava orto era un pezzo del giardino davanti a casa in cui lei aveva seminato dell’insalata e piantato dei pomodori e delle zucchine, ma che per la scarsa esposizione al sole e per la mediocre qualità del terreno dava dei frutti assolutamente insapore. Mia madre, però si ostinava a metterci in tavola piatti con quelle poche verdure crude o cotte, insistendo sulla loro bontà per il solo fatto che erano coltivate da lei stessa.

Andare a prendere qualche zucchina sapevo, quindi, non mi avrebbe fatto perdere molto tempo, ma avevo litigato con mio fratello per una questione di principio, perché, ogni volta che nostra madre ci chiedeva un favore, ero io quello che doveva obbedire, essendo in svantaggio per l’età.

Raccolsi velocemente tre o quattro zucchine, senza perdere tempo a sceglierle, e corsi di nuovo in casa. Calcolai che non potevo aver impiegato più di quattro minuti. Entrai in cucina gongolante, sicuro che avrei suscitato di nuovo rabbia, sinonimo di invidia, in mio fratello.

Lo trovai intorno al tavolo, ancora parzialmente da riordinare, con uno strano sorrisetto sulle labbra. Mi guardò e mi chiese accentuando un’aria sorpresa:

“Ma quanto tempo ci hai impiegato?! Mamma stava venendo a cercarti…”, e mi indicò la medesima sveglia di prima. Era una di quelle vecchie sveglie tonde, con la carica a molla e le tre lancette dei minuti delle ore e dei secondi, il cui ticchettio ci raggiungeva anche nelle camere da letto, di notte, quando non era sovrastato dal russare di papà. A scandire il passare del tempo, al ticchettio si univa il movimento del collo di una gallina che si abbassava e rialzava in un continuo tentativo di beccare il mangime disegnato sul fondo.

Ebbene, la sveglia segnava le nove meno un quarto.

Rimasi di sasso, ipnotizzato dalla posizione delle lancette sul quadro dei numeri e dal becchettare della gallina. Come poteva essere passato tutto quel tempo?

Fu in quel momento che mi piombò addosso o meglio sulla testa quello stordimento, che mi avrebbe raggiunto tante altre volte. Mi sentii improvvisamente estraniato dalla situazione che stavo vivendo, la mia mente mi sembrava annebbiata e percepivo i suoni e le medesime immagini come se arrivassero da lontano. Oggi, dopo le nozioni scolastiche apprese, descriverei quella mia condizione come se fossero mutate le caratteristiche fisiche dell’aria di propagazione del suono e della luce o come se mi trovassi improvvisamente immerso in un liquido, con la conseguente distorsione dei sensi; allora mi parve semplicemente che stessi sognando e nel sogno non avessi la capacità di agire, di comandare le mie azioni.

Non so quanti secondi rimasi nella medesima posizione, gli occhi spalancati e le labbra socchiuse; certo fu che quando, con lo stupore dipinto sul volto, mi girai prima verso mio fratello poi verso mia madre, notai che stavano quasi ridendo, così come mio padre con un occhio chiuso e l’altro semi-chiuso. Poi tornarono tutti alle loro attività, mamma a preparare il sugo, mio fratello a riordinare, papà a sonnecchiare, ma io avrei voluto urlare:

“Adesso aiutatemi! Fatemi uscire da qui dentro!”, perché la sensazione che avevo era proprio quella di essere rinchiuso in un involucro, attraverso il quale potevo vedere quello che succedeva intorno a me, senza riuscire a esserne partecipe.

Non dissi niente, anzi uscii di casa e mi avviai verso il campetto da calcio, accompagnato dal dubbio che se fosse capitato un imprevisto, non avrei avuto la capacità di reagire. Raggiunsi gli amici e mi unii al gioco, ma non riuscii a combinare nulla: arrivavo sempre in ritardo sul pallone.

Mi sedetti a bordo campo e iniziai ad osservare le rondini e il cielo: le nuvole erano calde pezze di stoffa dai colori pastello, bianche rosa e lavanda. Immerso in quella quiete, rividi la scena di alcuni minuti prima e capii. Capii che era stato tutto uno scherzo, che Andrea, mio fratello, mi aveva fregato ancora una volta ed aveva spostato le lancette. Il tempo non era passato senza che io me ne fossi accorto: avevo vissuto interamente quel breve tratto della mia vita, senza perderne neanche un minuto.

La nebbia, che mi offuscava la mente, pian piano si dissolse e potei tornare a vivere normalmente. Mi rimisi in piedi, pronto a rientrare in campo e dopo aver fatto qualche metro, mi voltai d’istinto verso il posto dove ero rimasto seduto, per controllare che non vi avessi lasciato un bozzolo, un qualcosa che mi si fosse sfilato di dosso.

Gli annebbiamenti continuarono. Ben presto notai che si presentavano ogni qualvolta mi sorprendevo, spaventavo, arrabbiavo o emozionavo in qualsiasi modo. Ogni volta, insomma, che da uno stato di quiete mi imbattevo in una situazione che faceva accelerare i battiti del cuore.

Mi accade ancora adesso, dopo trent’anni. Succede ancora che la nebbia torni e io non posso far altro che sedermi sulla linea del fallo laterale e aspettare che il tempo riprenda a scorrere senza inganni.

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