La nausea

Ho la nausea. Come ogni mattina, anche oggi ho la nausea.

Appena mi sveglio, prima di bere il caffè e anche dopo aver mangiato il solito croissant, ho la nausea. È una stretta che mi prende lo stomaco e lo tortura, nel tentativo di ripulirlo di quello che ha al suo interno. Che siano solo succhi gastrici, poco importa.
In realtà, non arrivo mai allo svuotamento vero e proprio, al limite ho qualche conato che cerco di trattenere e di nascondere.

Se fossi una donna, all’inizio avrei pensato di essere incinta. Forse, perché non so se sia la medesima sensazione che riduceva ripetutamente mia moglie in uno stato di sfinimento, durante le prime settimane di entrambe le gravidanze che ha avuto.

Oggi ho anche freddo. È il dieci di maggio, ma il tempo è grigio, la temperatura è nuovamente scesa e sembra stia per piovere. Ho appena accompagnato il più piccolo dei miei figli alla scuola materna e mi sono fermato in edicola a comprare il giornale.
Questo grigiore, che scende pesante dall’alto di un cielo inesistente e si mescola ai colori delle case rendendole più sbiadite, non fa altro che aumentare il mio malessere. Devo dire, però, che anche con le belle giornate di sole che si sono susseguite fino a ieri, la sensibilità del mio apparato digerente era solo leggermente migliore e la luce solare, che pure alleggeriva la realtà circostante, nulla poteva contro il carico d’ombre che mi opprime.

A momenti mi convinco di essere ammalato, di avere un cancro, un male incurabile che presto andrà in metastasi: dallo stomaco si sposterà ed attaccherà le cellule cardiache, svuotandole della loro capacità di permeabilità alle emozioni e poi arriverà al cervello, stritolandolo fino a farne uscire tutti i pensieri, fino a ridurlo come una spugna estirpata dal suo ambiente marino. La prospettiva di non provare dolore e di non avere la testa sempre piena di pensieri che mi stremano, mi potrebbe anche star bene; ma la nausea, no!, non posso più sopportarla.

Rientro a casa e sono solo. Mia moglie ha accompagnato il maggiore dei nostri figli a scuola e poi è andata in ufficio. Io ho la giornata di riposo e sarò solo fino a quando, nel pomeriggio, andrò a recuperare i ragazzi dalle rispettive scuole.

Ho del lavoro da svolgere, dei temi da correggere. Leggo il giornale rimandando il momento della correzione, perché non ho voglia di imbattermi in tutte quelle sciocchezze che ci saranno scritte. Ma più dei temi da correggere, mi spaventa ciò che dovrò fare in seguito: accendere il portatile e riempire di lettere, parole e frasi, pagine dapprima inesistenti sul monitor. A scandire il trascorrere infruttuoso del tempo, ci sarà quel cursore lampeggiante, che attenderà paziente, scomparendo e ricomparendo nel medesimo punto dove l’avrò abbandonato, come un atleta in fase di riscaldamento che prepara gli arti inferiori allo scatto con ripetuti salti sul posto. Spesso quel continuo lampeggio mi ipnotizza e adesso il solo pensiero mi causa un conato.

Sono due anni che ho iniziato quella stesura, il mio secondo romanzo, ma di buono avrò scritto una cinquantina di pagine. Le altre cento sono una serie continua di assurdità; consapevole del valore del mio testo, non dovrei essere severo con i miei studenti.

E pensare che scrivere è parte essenziale della mia esistenza, è lo scopo di ogni mia esperienza e i libri scritti da altri sono da tutta la vita i compagni del mio tempo libero e la mia passione. Ma in questi ultimi mesi ho superato un limite, che non sapevo esistesse, e ho iniziato ad essere ossessionato dalle parole scritte.

Non ne sono sicuro, ma temo che l’inizio dell’ossessione coincida con l’inizio della nausea. Entro in libreria ed è come se quelle centinaia di volumi mi chiamassero all’unisono, per ingraziarsi la mia attenzione, per farsi toccare, per lasciare anche solo per un minuto, lo scaffale dove sono rimasti relegati da troppe settimane. Mentre ne esamino uno, del quale magari non ho mai sentito parlare, gli altri titoli continuano a chiamarmi, sempre più forte; non saprei dire se usino il mio nome o altre espressioni di richiamo, ma certo alle mie orecchie o forse direttamente al mio cervello arrivano numerose “voci”, che mi impediscono di rimanere concentrato su ciò che sto leggendo. Alla fine, dopo circa un’ora in cui ho letto decine di quarte di copertina e mi è venuto un terribile mal di testa, mi dirigo verso l’uscita senza acquistare nulla, per non fare torto a nessun volume.

Vorrei parlarne con qualcuno, ma temo che sarei preso per pazzo. Non riesco a confidarmi neanche con mia moglie: nei suoi confronti mi trattiene il pensiero che poi voglia accompagnarmi in libreria e vedendo la commessa sempre costretta in vestiti aderenti, fraintenda la provenienza delle voci che sento.

Accendo finalmente il computer. Inizio a rileggere le ultime pagine che, come le precedenti, hanno avuto un parto lungo e travagliato e poi mi metto in attesa. Nei minuti successivi, che trascorro in trance davanti a quel segnale ad intermittenza, aspetto che il mio libro mi chiami come fanno gli altri della libreria e poi, magari, mi parli e mi dica come voglia essere scritto. Invece lui niente, sta zitto.

Ipotizzo che forse sto attendendo inutilmente, perché il libro parlerebbe solo se fosse già compiuto, se avesse già una sua vita. In questo momento sarebbe come sentir parlottare un bambino che non è ancora nato, un feto che avrebbe una capacità alquanto mostruosa.

Oppure, mi dico, il problema sta nel fatto di avere davanti il freddo monitor di un computer e non della empatica carta da riempire con i caratteri delle propria grafia, seppur imprecisa. Allora mi cimento in un’ulteriore prova, che in realtà so essere un altro espediente per ritardare il momento per mettermi a lavorare seriamente: cerco una vecchia agenda e sulla prima pagina che trovo libera, scrivo qualche riga del romanzo con una morbida e scivolosa biro ad inchiostro blu, riprendendo dal punto in cui ho lasciato in sospeso sul computer.

Terminata l’ispirazione del momento, smetto di scrivere e inizio a scarabocchiare sul bordo del foglio e poi, sprecando altro tempo, leggo la massima scritta sull’agenda, proprio sul fondo della pagina in cui mi sono fermato: “Chi ha tempo non aspetti tempo”.
Mi convinco di essere perseguitato da una sorte ironica mio malgrado.

Arriva finalmente la sera. Già da qualche minuto sto aspettando che Gaia, mia moglie, entri da quella porta, regalando con la sua presenza nuova linfa a questa giornata che mi ha già risucchiato tutta la voglia di vivere.

Mi chiede: “Hai scritto oggi?”.

Sette pagine”, mento.

Complimenti! …E quand’è che me lo fai leggere?”, mi abbraccia e i suoi occhi brillano di ammirazione.

Mi sento un verme perché in qualche modo la sto tradendo.

“Solo quando lo riterrò perfetto”, rispondo, guadagnando un periodo di tempo che tende all’eternità.

Mi concentro su questo pensiero, sul concetto di infinito e per la prima volta da quando mi sono ammalato, ho un conato di vomito alle sette di sera. Mi sto aggravando.

Più tardi, mentre la guardo riordinare la cucina dopo la cena, mentalmente la addito come mia Musa, mia Beatrice, mia Laura… L’unico problema è che io non sono né Omero né Dante né Petrarca… e nulla di quello che potrei scrivere saprebbe tradurre esattamente la natura dei miei sentimenti verso di lei.

Poi la osservo oltre il velo di emozione che mi offusca gli occhi e la trovo stanca, affaticata.

Lavoro troppo”, risponde alla mia domanda; dopo continua con un sorriso tirato sulle labbra nervose e non mi sembra esattamente contenta: “…Oppure potrebbe trattarsi di una certa leggerezza di stomaco… o una pesantezza al ventre…”.

Una percezione dolorosa mi raggela; lei mi si siede di fianco sul divano e ciò che avevo sotto agli occhi da settimane mi appare in tutta la sua evidenza: quel suo corpo fragile ha già iniziato a trasformarsi nuovamente, per la terza volta. Non riesco a dirle nulla perché mi sento in colpa per essere stato così preso dalle mie ossessioni da diventare miope e insensibile alle necessità della compagna delle mia vita. Mi attendo la nausea, la ormai solita risposta del mio organismo alle difficoltà, ma con stupore mi accorgo di non avvertire niente di sgradevole. Anzi, mi sento improvvisamente leggero, rilassato come non mi succede da settimane.

Gaia mi prende la mano e l’appoggia sul proprio ventre, comunicandomi, con quel gesto e senza altre parole, che non si arrenderà alla paura: la tensione sulle labbra era dovuta solo all’incognita della mia reazione.

Il suo ventre si alza e si abbassa più lentamente perché si sta addormentando. Cullato da quel movimento, anche io mi abbandono al sonno, ma un attimo prima di perdere coscienza, sento una voce che mi chiama e mi pare provenire proprio dal mio computer, da quel feto non ancora del tutto sviluppato che è il mio nuovo romanzo.

Mi risveglio di scatto e mi alzo; faccio sdraiare Gaia sul divano, tranquillizzandola con movimenti delicati, e le stendo un plaid addosso perché non si infreddolisca.

Penso io ai bambini”, le sussurro e lei mi sorride, non ancora completamente intrappolata dalle braccia di Morfeo.

Preparo i bambini e li costringo a letto, come avviene ogni sera. Ma questa serata, per me, è diversa, è una serata lavorativa e se sarà necessario, sarà anche una nottata lavorativa. Accendo il computer quasi in preda ad una crisi isterica, perché il caricamento delle impostazioni del sistema operativo mi sembra ancora più lento del solito. Ho la testa che mi scoppia di parole, di frasi che so che troveranno una loro collocazione ben precisa all’interno di tutto il testo; mi basterà lasciarle fluire, come il sangue che scorre nelle vene, come la Vita che si perfeziona dentro un ventre materno. Tutto quello di cui posso scrivere mi sta intorno, racchiuso in un piccolo quadrato, ai cui angoli ci siamo io, Gaia e i ragazzi, marito, moglie e figli che per la necessità narrativa assumono via via altri nomi e, sempre per la necessità narrativa il quadrato può diventare un rombo, un trapezio, storpiarsi nella sua perfezione o perdere o assumere altri angoli, variando il rapporto tra di loro, all’interno della figura geometrica. Esattamente quello che sta succedendo nella nostra famiglia.

Ormai le dita sulla tastiera hanno il solo limite dei mancati studi di dattilografia e la mia mente è in piena sintonia con lo stomaco. So che da domani non soffrirò più per la nausea e mentre da un lato mi rallegro, dall’altro mi avvilisco perché prevedo che ne soffrirà Gaia. È come se mi avesse salvato, come se si fosse addossata il mio male ed io ne sminuirei la grandezza se continuassi a considerarla solo come mia musa ispiratrice.

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