Al giardino ancora non l’ho detto

Pia Pera

Pia Pera, lucchese, è stata una donna di straordinaria cultura e sensibilità. Ci ha lasciato prematuramente (aveva da poco compiuto 60 anni) a causa di una grave malattia: la SLA (Sclerosi Laterale Amiotrofica). Nel 2016, qualche mese prima della sua morte, pubblica “Al giardino ancora non l’ho detto”. Questo libro è un testamento, un diario che racconta una vita (la sua) che si restringe con l’impossibilità del corpo a reagire. Un testo dove il giardino diventa amore e forza letteraria altamente espressiva.

Pia Pera conquista con la sua scrittura dolce, profonda e ricca di riflessioni. La sua è una narrazione ai limiti dell’esistenza, quando la vita inizia a negare l’idea di un futuro e si percepisce solo la caducità dell’esistenza. L’autrice assume un atteggiamento rivoluzionario verso la morte. Lo fa nel suo giardino, nel luogo del cuore più amato. Nei confronti di questo spazio ideale ha un approccio di intimo rispetto. Verrà il giorno in cui lei, il “Giardiniere”, non terrà fede al suo consueto appuntamento; e questo il giardino non lo sa.  Tra le sue piante, l’autrice aveva scoperto una leggerezza interiore che la rendeva libera… via le zavorre del futuro, indifferenza verso un passato superato. Si immergeva nell’attimo presente; perfettamente inserita nel mondo fluttuante del suo giardino in perenne trasformazione.

Pia Pera, affetta da una forma di sclerosi, conosce il suo incerto/triste destino. Sa che non morirà sulle sue gambe; il confine con la sedia a rotelle è sempre più vicino. Inizia così un percorso letterario di rara bellezza; una scrittura intensa e intima che diventa essa stessa vita al cospetto della certezza della morte. Il miracolo avviene proprio nel giardino. La mente si ribella alla condanna. Capisce che la bellezza spesso appartiene alla fragilità… come un vecchio e decadente palazzo. Si sente connessa a una bellezza e a un’armonia impalpabili: le sue invisibili ricchezze.

Nel suo giardino vive la libertà di fantasticare senza imbarazzo. È un po’ l’aspetto più vero che appartiene ai giardinieri. Nel nome della libertà, finalmente abbandona quella cappa opprimente che appartiene all’uomo: la razionalità. L’autrice ama la sua casa per il suo grande giardino, curato in ogni angolo. Ama la solitudine ben sapendo che, presto, la sua malattia chiederà necessarie e nuove presenze.

Si avvia verso una vita rallentata che ispira profonde riflessioni. È una nuova bellezza, un approccio a conoscere il mondo dall’interno della sua nuova esperienza. A causa della malattia impara a camminare piano in una sorta di esercizio spirituale. In questo clima di rinnovati pensieri non smarrisce mai il salvifico rapporto con il suo giardino. Sa bene che non sarà più lei a curarlo; lo farà per mano d’altri ma senza abbandonarlo.

Intensi e appassionanti sono i riferimenti a scrittori, poeti e artisti che hanno toccato, con mano, il dramma di una morte annunciata. Si avvicina alla vita e al pensiero dell’eremita, nella conquista di un’immortalità interiore, certamente non fisica… una forma di aldilà che può esistere dentro di noi. È come cercare una pace interiore nell’attesa di una dolce morte.

Con il giardino sente di vivere un rapporto di reciproca sopravvivenza; non era solo lei a prendersi cura del giardino, era anche il giardino a prendersi cura della persona generando un lavoro costante da fare nel tempo.

Bellissime le parole dedicate a Lou Reed, in occasione della sua morte. È Laurie Anderson che parla. Teneva tra le braccia la persona più amata al mondo. Se ne andava senza paura; forse appariva la luce più bella… quella dell’amore. Scopo della morte è proprio il rilascio dell’amore.

Il testo di Pia Pera è una sorte di intimo diario. È un ripercorrere la vita, rivisitata con occhi diversi, con rinnovate emozioni. Il tutto avviene nel tempo in cui l’autrice vive intensamente il suo rapporto con il giardino, alla ricerca di un gesto di congedo che sa di amore infinito. Lei che conosce tutte le piante e si è preoccupata, negli anni, di curarle tutte, nessuna esclusa.

Vivere, convivere con la malattia non è facile. Nel suo caso crea anche terrore di non farcela, di non riuscire da sola. E lei è sola… nessuno da stringere, nessuno a cui telefonare. Ma la malattia assume anche l’aspetto sgradevole dell’assenza di intimità… a volte è priva di quella sana solitudine che si vorrebbe avere.

L’autrice riflette sulla libertà. Il male diventa prigione e per questo lotta per mantenere almeno la liberta interiore. È dura dipendere fisicamente da altri. Vive, con la malattia, il suo personale diluvio. Come Noè, prigioniero nell’arca, lei si sente costretta dentro una malattia. Approderà da qualche parte? Ricorda che spesso, con egoismo, era fuggita dalle malattie degli altri… paura, una sorte di protezione, distacco.

Altre volte pensa che dopo tanta sofferenza, un’inaspettata guarigione, apparirebbe strana e non a lei riferibile. C’erano stati i sogni, sogni premonitori. Appartenevano alla sua gioventù ed esprimevano anche paura, terrore. Paura di morire? O forse la paura di soffrire nel viaggio che conduce alla fine? Forse la paura di morire vince la pigrizia ed è così che si corre; un impegno costante per tenersi in vita.

Il pensiero va anche a tutte le occasioni non accolte, quando ancora la vita consentiva di coglierle: incontri, viaggi, appuntamenti. Ora nulla di tutto ciò è possibile. La nostalgia si fa disperazione in una sorta di avidità retrospettiva. Il pensiero di prepararsi alla morte diventa prioritario e si dimentica di vivere. Subentra anche l’idea se è stato fatto tutto quanto si poteva fare.

E poi la domanda “Se tornassi indietro?”. L’importante è essere stati felici. Felicità anche senza particolari motivi, magari semplicemente nella magia della contemplazione della natura. La morte diviene così una sorte di ospite indesiderata; arriva quando ancora si è impegnati in qualcosa di molto più interessante… la vita.

Con il passare del tempo si rende sempre più conto di avere la possibilità del tutto artificiale di esistere. La malattia imprigiona nella gabbia del proprio egoismo, sempre più separata dal mondo. È come abitare un corpo sempre meno vivo.

È così che si congeda Pia Pera. Lo fa con una straordinaria lucidità, dopo aver toccato con grande sensibilità tutta la sua vita per approdare, infine, in quello che è l’intimo rapporto con la natura che la circonda: l’amato giardino. Finalmente si sente libera dalla zavorra di un futuro ormai inutile.

Pia Pera nasce a Lucca nel 1956. È stata una scrittrice, saggista e traduttrice italiana. È stata anche professoressa di letteratura russa presso l’Università di Trento; contemporaneamente ha svolto l’attività di traduttrice, dal russo, di autori classici e contemporanei. Ha scritto diversi libri di narrativa e saggistica. Negli ultimi anni si è occupata di giardinaggio, curando anche diverse rubriche sulle riviste specializzate. Tra le sue opere ricordiamo “La bellezza dell’asino”, “Diario di Lo”, “L’arcipelago di Longo Mai”, “Il giardino che vorrei”, etc. Numerose le sue traduzioni dal russo. Malata di SLA dal 2012, muore a Lucca nel 2016 ad appena sessant’anni.

Titolo: Al giardino ancora non l’ho detto
Autore: Pia Pera
Editore: Ponte alle Grazie
Pubblicazione: 2016
Pag.: 216
Costo: euro 15,00      

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