Il Gattopardo

Romanzo scritto da Di Tomasi di Lampedusa. Dopo tante difficoltà e rifiuti, questo romanzo fu pubblicato nel 1958, postumo, grazie all’amore di chi voleva sostenere il desiderio dell’autore anche dopo la morte di quest’ultimo. Il libro divenne un classico, letto ancora oggi da generazioni di studenti. La scrittura così densa di descrizioni, di stati emotivi, di caratterizzazioni, di pensieri lavorati, riflettuti, covati, costanti.  È il racconto di generazioni e di passaggi, da cambiamenti veri o solo custoditi, in una Sicilia a suo modo restata statica pur nell’evolversi delle condizioni e degli eventi storici. Personaggi affascinanti e diversi tra loro che emanano comunque e sempre rispetto ognuno per se stesso, ognuno per ciò che rappresenta.

Il personaggio principale è Don Fabrizio nobile siciliano che osserva la venuta dei Mille senza apparentemente esserne scosso, non accetterà un’importante incarico politico che gli viene affidato, coerente con se stesso e con ciò che è stata la sua vita, lascia però che suo nipote Tancredi, ambizioso e acuto, si faccia trasportare dall’entusiasmo del nuovo. Don Fabrizio non entra nel ruolo nuovo ed allo stesso tempo è annoiato dal ruolo che riveste e dalla sua stessa nobiltà, lascia che tutto accada, che scorra, che vada oltre la sua stessa vita. Don Fabrizio incarna la Sicilia, sua tenace terra, malgrado la storia abbia una virata decisiva con l’Unità d’Italia, tutto resta, così, procedendo lentamente, almeno tra le sue viscere, tra i suoi guizzi interiori. Un romanzo sorprendente, autentico, attuale.

La frase simbolo del romanzo è detta da Tancredi a Don Fabrizio:

Se vogliamo che tutto resti com’è bisogna che tutto cambi

Una frase che sa di passato, presente e futuro, che gioca tra il vero e l’apparenza, tra il movimento e l’immobilismo, tra la crisi che aspetta il nuovo ed il nuovo ancora legato al vecchio. È il passaggio e il cambiamento, è l’incertezza che in un momento abbraccia l’uno e l’altro, un momento di cammino, un momento di attesa, un attimo quasi impercettibile nel guardare superficiale eppur intenso, necessario.

C’è una parte del libro che io ho amato ed ho ritrovato nel presente di ogni storia, di ogni cambiamento. È di padre Pirrone, mentre parla con sincerità a se stesso e con acume approfittando che il suo interlocutore, don Pierino, si sia addormentato mentre l’ascoltava. Una verità detta ad alta voce nel momento in cui nessuno in realtà ascoltava, una riflessione dell’animo e dei pensieri in un momento solitario:

E vi dirò pure, don Pietrino, se, come tante volte è avvenuto, questa classe dovesse scomparire, se ne costituirebbe subito un’altra equivalente, con gli stessi pregi e gli stessi difetti: non sarebbe più basata sul sangue forse, ma che so io… sull’anzianità di presenza in un luogo o su pretesa miglior conoscenza di qualche testo presunto sacro.

Una parte che mi ha fatto pensare al cammino degli uomini, della storia che l’uomo genera. L’uomo è storia con i suoi pregi e difetti che si ripetono con la forza, il coraggio, gli ideali ed anche con le ristrettezze interiori, con le fatiche ad essere migliore, e con la forza di provarci ad essere migliore. Una storia che racconta di uomini e donne e di pensieri e di strade che a volte si fermano, si distruggono per poter ricominciare.

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